Si è appena conclusa la prima edizione mondiale dei Giochi Olimpici dei Popoli Indigeni. La manifestazione si é tenuta dal 23 ottobre al 1° novembre nello stadio di Palmas (capitale dello Stato Brasiliano di Tocantins), ed ha visto la partecipazione di circa 2000 atleti facenti parte di decine di etnie provenienti da varie parti del mondo.
Le discipline in cui gli atleti si sono cimentati in questi giorni
sono state sia le classiche competizioni occidentali (football, canottaggio e atletica) sia quelle tipicamente indigene (tiro con l’arco, corsa coi tronchi, lotta e tiro alla fune). Ed oltre alle gare vere e proprie, si è potuto assistere anche a dimostrazioni non competitive di sport tradizionali, come lo xikunahati, il calcio indigeno, che si gioca
usando la testa al posto dei piedi.
Ma le differenze fra queste Olimpiadi e quelle più famose a cui assisteremo il prossimo anno, sono numerosissime, proprio a voler sottolineare con forza la peculiarità dei partecipanti.
Prima di tutto la città scelta come sede per i Giochi, Palmas, è volutamente lontana dalle grandi capitali che di solito ospitano le Olimpiadi che tutti conosciamo.
Una partecipazione completamente diversa l'ha poi avuta il denaro: le Olimpiadi Indigene non hanno avuto sponsor e per assistervi non si doveva pagare un biglietto d'ingresso. Coerentemente con lo spirito degli organizzatori, non c'erano telecamere e non c'è stato alcun bisogno di prevedere test antidoping (e perché, se l'importante è partecipare?).
Gli indigeni partecipanti dovevano avere almeno 16 anni, mentre non era previsto un limite massimo di età.
Pochissime discipline erano realmente competitive, come il tiro con l’arco, la canoa e la corsa. Gli altri giochi sono stati meri eventi dimostrativi nei quali nessuno ha vinto: ogni atleta ha ricevuto una medaglia come simbolo di "celebrazione spirituale", invece di rappresentare l'essere "campione tra gli indigeni".
Le strutture costruite per i giochi, incluse le residenze degli atleti, sono state realizzate con materiali ecosostenibili e riciclabili. Inoltre, sono state piantate centinaia di nuovi alberi per sostituire quelli intagliati per fare le canoe e altro materiale sportivo.
Alla vigilia delle Olimpiadi che l'anno prossimo si terranno in questo stesso Paese, gli indigeni hanno così tentato di sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema delle loro culture (ma anche delle loro stesse vite) calpestate troppo spesso da interessi economici superiori a tutto. "La nostra vita non è un gioco", si leggeva fra l'altro nei cartelli esposti da alcuni partecipanti.
I Giochi sono stati anche preceduti ed accompagnati da dibattiti su temi culturali e sociali legati ai popoli indigeni, perché l'altro obiettivo delle Olimpiadi indigene era quello di creare dei legami duraturi di amicizia tra le etnie che vivono ai capi opposti del mondo, legami di solidarietà e di mutuo aiuto.
Ma qual è la realtà che vivono gli indigeni brasiliani? Numericamente parlando, questi cittadini sui generis rappresentano solo lo 0,5 per cento della popolazione brasiliana. Le loro terre, in teoria, occupano un decimo del Paese, ma i gruppi indigeni rimangono la fascia di popolazione più povera, perché le foreste, i fiumi e la savana che sono le loro dimore sono minacciate da piantagioni, pascoli, energia idroelettrica e attività minerarie, solo per citarne alcune. La loro cultura rischia di essere assimilata dalla società convenzionale e i loro gruppi sono mal rappresentati in politica. La tensione fra indigeni e brasiliani di origine europea è quindi decisamente alta, e purtroppo non raramente si è materializzata in vittime fra gli indigeni.

Ma le differenze fra queste Olimpiadi e quelle più famose a cui assisteremo il prossimo anno, sono numerosissime, proprio a voler sottolineare con forza la peculiarità dei partecipanti.
Prima di tutto la città scelta come sede per i Giochi, Palmas, è volutamente lontana dalle grandi capitali che di solito ospitano le Olimpiadi che tutti conosciamo.
Una partecipazione completamente diversa l'ha poi avuta il denaro: le Olimpiadi Indigene non hanno avuto sponsor e per assistervi non si doveva pagare un biglietto d'ingresso. Coerentemente con lo spirito degli organizzatori, non c'erano telecamere e non c'è stato alcun bisogno di prevedere test antidoping (e perché, se l'importante è partecipare?).
Gli indigeni partecipanti dovevano avere almeno 16 anni, mentre non era previsto un limite massimo di età.
Pochissime discipline erano realmente competitive, come il tiro con l’arco, la canoa e la corsa. Gli altri giochi sono stati meri eventi dimostrativi nei quali nessuno ha vinto: ogni atleta ha ricevuto una medaglia come simbolo di "celebrazione spirituale", invece di rappresentare l'essere "campione tra gli indigeni".
Le strutture costruite per i giochi, incluse le residenze degli atleti, sono state realizzate con materiali ecosostenibili e riciclabili. Inoltre, sono state piantate centinaia di nuovi alberi per sostituire quelli intagliati per fare le canoe e altro materiale sportivo.
Alla vigilia delle Olimpiadi che l'anno prossimo si terranno in questo stesso Paese, gli indigeni hanno così tentato di sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema delle loro culture (ma anche delle loro stesse vite) calpestate troppo spesso da interessi economici superiori a tutto. "La nostra vita non è un gioco", si leggeva fra l'altro nei cartelli esposti da alcuni partecipanti.
I Giochi sono stati anche preceduti ed accompagnati da dibattiti su temi culturali e sociali legati ai popoli indigeni, perché l'altro obiettivo delle Olimpiadi indigene era quello di creare dei legami duraturi di amicizia tra le etnie che vivono ai capi opposti del mondo, legami di solidarietà e di mutuo aiuto.
Ma qual è la realtà che vivono gli indigeni brasiliani? Numericamente parlando, questi cittadini sui generis rappresentano solo lo 0,5 per cento della popolazione brasiliana. Le loro terre, in teoria, occupano un decimo del Paese, ma i gruppi indigeni rimangono la fascia di popolazione più povera, perché le foreste, i fiumi e la savana che sono le loro dimore sono minacciate da piantagioni, pascoli, energia idroelettrica e attività minerarie, solo per citarne alcune. La loro cultura rischia di essere assimilata dalla società convenzionale e i loro gruppi sono mal rappresentati in politica. La tensione fra indigeni e brasiliani di origine europea è quindi decisamente alta, e purtroppo non raramente si è materializzata in vittime fra gli indigeni.
In un mondo globalizzato dove tutto viene uniformato e schiacciato dalla logica dell'interesse economico, preservare le tradizioni indigene rappresenta davvero una sfida ambiziosa. Ma questa sfida riguarda tutti, perché tutti corriamo il rischio di un appiattimento culturale e sociale al servizio di padroni che vogliono fagocitare tutto (e troppo spesso ci riescono). E quindi mi sembra azzeccatissimo il motto di questi Giochi appena conclusi: nel 2015, siamo tutti indigeni.
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