domenica 20 dicembre 2015

La vera identità della stella di Natale

Prima di venire in Brasile non mi ero mai fatta domande sulla stella di Natale, quella pianta che compare ovunque durante il periodo delle feste e che in genere viene buttata via subito dopo, quando sfiorisce. Qui però mi sono imbattuta in veri e propri alberi di stelle di Natale, che qui chiamano bico de papagaio (becco di pappagallo) o rabo de arara (coda di arara). Piantata a terra, l'albero della stella di Natale può arrivare anche a 3 metri di altezza. E il motivo per cui in Italia si usa come pianta da interno è quindi perché in realtà nel suo habitat naturale raggiunge il suo massimo splendore in estate, che nell'emisfero sud comincia a dicembre.
...e allora mi sono incuriosita...
Prima di tutto questa pianta è originaria del Messico, dove Joel Robert Poinsett, ambasciatore degli Stati Uniti dal 1825 al 1829, la vide per la prima volta restandone affascinato. Ne portò quindi alcuni esemplari nella sua casa nella Carolina del Sud e la fece conoscere ad amici ed orti botanici sia negli Stati Uniti che in Europa. E' per questo che la stella di Natale è conosciuta nei paesi anglofoni con il nome di Poinsettia Pulcherrima. Il nome invece di stella di Natale le fu dato dai missionari spagnoli, in quanto la sua forma ricorda quella di una stella e la sua fioritura è all'apice proprio nel periodo natalizio.
In Italia questa pianta esotica è entrata nelle case per la tradizione natalizia dopo essere stata usata per gli addobbi della Basilica di San Pietro nella notte di Natale del lontano 1899.
Attenzione però: la stella di Natale, se se ne spezza un gambo, secerne un liquido lattiginoso il cui contatto può causare lesione della pelle e delle mucose, gonfiore delle labbra e della lingua, prurito. L'ingestione causa nausea, vomito e diarrea. Insomma, prendendo in prestito un'altra pianta, non c'è rosa senza spine!


venerdì 4 dicembre 2015

Rio Doce, dove e quando finirà il disastro?

Fonte: ansa.it
I fiumi rappresentano da sempre un'importante risorsa per la sopravvivenza degli esseri umani (e più in generale, logico, degli esseri viventi). Il fiume è vita per i pesci e tutte le specie acquatiche, per gli animali e le piante che vivono nei suoi pressi, e di conseguenza si porta dietro tutta una serie di attività che permettono all'uomo di vivere. Questo è ancor più evidente per gli indios, che usano il fiume per bere, per lavarsi, e come fonte di sostentamento. Ma non è meno vero per gli altri. Ne sanno qualcosa i pescatori, gli allevatori e gli agricoltori delle zone colpite dal disastro avvenuto un mese fa, che ora non avranno più di che sostentarsi. Quando muore un fiume, muore la vita.

Fonte: noticias.uol.com.br
Anche se i  media non hanno dato molto risalto alla tragedia, oscurata dagli attentati di Parigi, credo che ormai tutti sappiano che il 5 novembre scorso sono crollate due dighe sul Fiume Rio Doce, che attraversa gli Stati del Minas Gerais e dell'Espirito Santo,  a circa 100 km da Belo Horizonte. In corrispondenza delle dighe crollate si trova una miniera di ferro, e le sostanze usate per lavorare questo materiale (metalli pesanti) si sono riversate nel fiume insieme ad una valanga di fango. Il villaggio di Bento Rodrigues è stato travolto da questo fiume velenoso, che ha causato nell'immediato 11 vittime accertate, 8 dispersi e centinaia di sfollati. Le comunità coinvolte si sono trovate però a dover affrontare, oltre al fango tossico, anche la mancanza di acqua potabile (si tratta di 250 mila persone), oltre che per molti l'impossibilità di continuare ad esercitare la propria attività. Il Rio Doce, che fra l'altro era già vittima di uno sfruttamento che lo stava lentamente depauperando delle proprie forze, ora è morto. O perlomeno agonizzante. L'inquinamento del fiume rischia poi non solo di provocare la morte di un intero ecosistema dentro e intorno al corso d'acqua, ma ora ha raggiunto il mare, e si fanno ipotesi sul tragitto di questa macchia velenosa, che segue i venti e le maree. Sono a rischio così anche le coste brasiliane, comprese quelle dell'Arcipelago Abrolhos, che è parco nazionale protetto.
Fonte: http://www.hojeemdia.com.br
Tutto lascia pensare che le conseguenze sul piano ambientale si faranno sentire per molto tempo, anche se secondo il Ministro dell'Ambiente Izabella Teixeira, per far tornare alla normalità il Rio Doce serviranno 10 anni (almeno). Greenpeace parla invece di almeno 100 anni per rendere la situazione reversibile.

La prima domanda che sorge spontanea è: perché? Voglio dire: come è possibile che non si sia potuto evitare un simile disastro? O meglio: si poteva evitare? Dove erano le autorità che avrebbero dovuto controllare? La società che gestisce il sito minerario protagonista di questo incidente è la Samarco Mineraçao, la cui proprietà è divisa fra la multinazionale Vale S.A. e la anglo-australiana BHP Billiton. La Vale è il maggior produttore (ed esportatore) di ferro a livello mondiale; nata come società pubblica, è stata in seguito privatizzata. Attualmente lo Stato Brasiliano detiene solo una piccola percentuale della società (pur mantenendo un diritto di veto su alcune decisioni rilevanti), ma la maggioranza del capitale è di fatto in mano agli stranieri (non mancano comunque tra i maggiori azionisti due banche brasiliane). Si è scomodata anche l'ONU per far notare alle autorità brasiliane che la multa inflitta ai responsabili è insufficiente a coprire il piano di recupero. Certo che una società come la Samarco, che fa girare moltissimi soldi, è sicuramente oggetto di un trattamento di riguardo, e questo se non si vuole pensar male, cioè che molti di quei soldi vengano elargiti ai politici per chiudere un occhio, e a volte due, con finanziamenti più o meno occulti e più o meno puliti. Con buona pace del rispetto per le vite umane e per l'ambiente.


sabato 28 novembre 2015

Foz do Iguaçu, che meraviglia!

In questo mese ho fatto una mini vacanza a Foz do Iguaçu, e mi sembra doveroso scrivere di questa esperienza. Doveroso perché è qualcosa di unico, e mi sento fortunata ad aver avuto la possibilità di fare questo viaggio non una, bensì due volte. Devo dire però che la mia prima volta è stata meno entusiasmante, per il semplice fatto che è stata nel mese di aprile, quando è ormai finita la stagione delle piogge. Non che allora mi sia sembrato uno spettacolo deludente: le Cascate di Iguaçu restano indiscutibilmente una delle meraviglie del mondo. Ma questa volta, con le piogge a ingrossare il fiume Iguaçu, le cascate ci hanno offerto uno spettacolo travolgente. E quando dico travolgente lo dico in senso proprio, perché dalla visita dal lato brasiliano sono uscita bagnata come un pulcino. Bellissimo! Quando arrivi e cominci il sentiero vedi le prime cascate e già ti sembra un posto surreale.


Poi prosegui, e ti accorgi che le cascate continuano, e poi ancora e ancora (sono circa 275), fino ad arrivare alla Garganta do Diablo, cioè una gola in cui confluiscono diverse cascate, dove una passerella ti permette di ritrovarti in mezzo agli spruzzi di una massa d’acqua che se uno non la vede non riesce a concepirla. Fra l'altro consigliano di usare un impermeabile (che vendono anche sul posto), ma io sono andata senza, e devo dire che lo consiglio, perché messi al sicuro telefono e portafogli ti dà proprio la sensazione di immergerti nella natura. Fra l'altro, nonostante si tratti di un posto molto turistico (è il secondo sito più visitato in Brasile, dopo Rio de Janeiro), ci si ritrova intorno una vegetazione verdissima e rigogliosissima, che ti porta a pensare come fosse alle origini.

La visita alle cascate non è completa se non si oltrepassa la frontiera e non si va anche nel lato argentino, passando per il ponte Tancredo Neves, che fino ad un certo punto ha i colori giallo e verde del Brasile, e poi si trasforma nel bianco celeste della bandiera argentina. Le cascate appartengono fra l’altro all’80% all’Argentina, ma questo fa sì che la vista d’insieme sia migliore dal lato brasiliano. In Argentina bisogna armarsi di pesos (l’ingresso si paga solo in contanti in moneta locale, mentre in Brasile si può pagare con la carta) e poi via, a prendere il trenino che ti porta verso la Garganta, questa volta vista dall’alto. Lungo il tragitto tante farfalle colorate svolazzano allegramente e non sembrano temere i turisti, sui quali a volte si posano come ad attendere uno scatto che le immortali. Il tragitto prevede una passeggiata letteralmente sopra il fiume, che è immenso, e poi ecco di nuovo l’acqua che cade giù con un fragore assordante e ti lascia senza fiato.




Senz’altro un viaggio che vale la pena fare almeno una volta nella vita. Dal punto di vista organizzativo, i brasiliani stavolta mi hanno sorpreso positivamente. Nessun problema, né nel piccolissimo aeroporto di Foz, né durante il soggiorno o la visita. A fare da contorno all’attrazione principale, l’acqua, i quaty, piccoli mammiferi piuttosto invadenti che cercano cibo passando fra le gambe dei turisti (diversi cartelli avvisano i visitatori che possono mordere). Ma fra le piante si vedono spuntare ogni tanto anche iguana e uccelli esotici (ci sono dei cartelli che mettono in guardia dall'uscire dal sentiero, dato che si possono incontrare serpenti!), e durante la mia prima visita ho visto anche un piccolo coccodrillo che prendeva il sole su una roccia in mezzo al fiume.
A proposito di uccelli, la nostra gita a Foz do Iguaçu si è conclusa con la visita al Parque das aves, altra piacevole sorpresa. Il parco ospita volatili che hanno avuto problemi e che sono stati accolti per essere aiutati. Si possono ammirare i tucani da vicinissimo, e poi pappagalli di tutti i colori e dimensioni, colibrì, e tanti altri uccelli. Molto bello, soprattutto per chi come me viaggia con i bambini.

Qualche piccola curiosità su Foz do Iguaçu:

  • il nome Iguaçu deriva dalla lingua Guarani, nella quale u significa acqua e guaçu grande;
  • la città di Foz do Iguaçu ospita in proporzione il più alto numero di musulmani del Brasile (c’è anche una moschea, inaugurata nel 1983);
  • la diga di Itaipù, poco distante, al confine fra Brasile e Paraguay, rifornisce di energia elettrica il Paraguay per la quasi totalità del suo fabbisogno ed il Brasile per circa il 25%;
  • normalmente la visita delle cascate viene accompagnato dal cosiddetto "turismo das compras" nella vicina Ciudad del Este, in Paraguay, dove i prezzi (dicono) sono molto più competitivi che in Brasile (e, aggiungerei, non ci vuole poi tanto);
  • le cascate di Iguaçu hanno fatto da scenario ad un famoso film, Mission, con un aitante Robert De Niro e dei giovanissimi Jeremy Irons e Liam Neeson. Il film, del 1986, ha vinto la Palma d'oro al 39° Festival di Cannes e vanta niente popodimenoche una colonna sonora (bellissima!!!) composta dal grande Ennio Morricone. Qui il link per ascoltarla: Ennio Morricone - colonna sonora Mission

sabato 21 novembre 2015

Malala, musulmana e combattente

In questo blog non mi soffermo in genere su argomenti di attualità. Ma gli avvenimenti di questi giorni occupano in molta parte i miei pensieri, e mi sembra giusto allora rovesciarli qui. Visto che circolano tante notizie, punti di vista, etc, ho deciso di parlarne a modo mio, usando un simbolo positivo, tanto per cambiare, cioè Malala Yousafzai. Se c'è qualcuno a cui questo nome dice qualcosa, sicuramente è perché le è stato assegnato nel 2014 il Nobel per la pace, la più giovane di sempre ad aver ottenuto tale riconoscimento. Chi è Malala? Una ragazza pakistana che quando i talebani hanno preso possesso del territorio in cui viveva, lo Swat, proibendo fra l'altro alle bambine di frequentare le scuole, si è ribellata. Non ha chinato il capo. Non è rimasta in silenzio. Ha detto al mondo intero, tramite interviste e un blog pubblicato sul sito della BBC, che non intendeva rinunciare a studiare, e che non era giusto che lo facessero neanche le altre ragazze. Ha detto no. Ha ricevuto minacce, sapeva di rischiare grosso, ma ha continuato a dire no. E così le hanno sparato. Ad una ragazzina di 15 anni che voleva studiare. E l'hanno quasi uccisa. Quasi, per fortuna.
Dopo essere uscita viva da quell'assurdo attentato, lei non ha avuto paura di dire ancora no. Oggi Malala vive sotto scorta a Birmingham, in Inghilterra, e continua a studiare con eccellenti risultati. Ha creato un fondo a suo nome che ha come obiettivo quello di promuovere il diritto allo studio (https://www.malala.org/). Non parla di bambini pakistani, o musulmani o che so io, parla di bambini, Malala, e basta. Perché non c'è (o meglio, non dovrebbe esserci) differenza quando si tratta di diritti fondamentali.

Ecco, cosa c'entra con l'attualità? Malala ha due cose in comune con i terroristi che hanno seminato il terrore a Parigi: è musulmana ed è una combattente. Ma dietro queste etichette si nasconde esattamente l'opposto di quello che sono quei terroristi. Questa ragazza è la dimostrazione vivente che islam e oscurantismo non sono sinonimi. E combatte sì, ma con le parole, rischiando la vita per un ideale molto nobile. Malala ha capito che cedere alla paura è rinunciare a ciò che rende la vita migliore, più degna di essere vissuta.

Con questo post non voglio dire che non tutti i musulmani sono "cattivi". Questo lo do per scontato, anche se purtroppo non credo sia così per tutti.
Ho scritto in breve la storia di questa ragazza per dire che ognuno di noi, nel suo piccolo, può dire no. No alla paura, no alla violenza, no al razzismo. Da chiunque provenga, e chiunque ne sia vittima. Non tutti possiamo essere coraggiosi come Malala, certo, ma sarebbe bello se ognuno di noi cercasse di avvicinarsi più al modello rappresentato da questa piccola eroina che a quello dei terroristi che vogliono schiacciare tutto e tutti.

sabato 7 novembre 2015

Un anno di blog

Il 7 novembre 2014, esattamente un anno fa, pubblicavo il mio primo post su questo blog. Il bilancio sorge spontaneo. 
Innanzitutto mi vengono in mente tutte le cose che ho vissuto in questo periodo, un altro anno passato no Brasil, e come sempre mi viene da dire che è stato faticoso. Nonostante viva in questo Paese da diversi anni, infatti, ancora trovo difficile una quotidianità fatta di tanti piccoli gesti e meccanismi lontani dalla mia cultura. Non riesco a fare amicizia, non mi abituo al jeitinho, alla lentezza, a tutto questo continuo nominare dio e jesus, al loro essere approssimativi. Non dico che è colpa loro. Solo che non mi sento a mio agio.
La mattina, accompagnando a scuola i miei figli, mi capita di sentire alla radio l'inno nazionale brasiliano (è alle 8) e allora alzo a palla e insieme a loro lo cantiamo. Mi diverte farlo, perché come italiana non riesco a percepire la solennità di questo rito, che peraltro è imposto anche nelle scuole. Anzi, è proprio la solennità che mi appare ridicola. Penso che se lo dicessi a un brasiliano si offenderebbe. Ed il sentirsi facilmente offesi è un'altra cosa di questo popolo a cui non mi abituo. E' come se avessero un senso di inferiorità che non permette loro di prendersi un pò in giro.
E poi ci sono tanti altri aspetti che mi lasciano perplessa. Loro usano diminutivi per tutto, come Flanders dei Simpson. La prima volta che mi sono sentita chiedere se volevo dell'acquetta ("Quer aguinha?") ci ho messo un quarto d'ora a capire cosa volessero. Ma cos'è, l'acquetta?!?
Non capisco la povertà e la rassegnazione dei molti, sono terrorizzata dalla violenza derivante dalla totale incapacità di capire che esiste un altro modo di vivere (quando lo capiscono, credono sia solo al servizio di dio). E ancora di più mi sento a disagio di fronte all'arroganza dei ricchi, che si sentono i padroni in questo Paese in cui c'è un apartheid rispetto alla quale mi sento completamente estranea.
Quindi alla domanda che tutti i brasiliani che incontro continuano a farmi, e cioè "come ti trovi in Brasile?", non posso che rispondere "male" (a loro non lo dico, cerco di essere gentile).
Il lato positivo di questa esperienza brasiliana continua ad essere la possibilità di accrescere la consapevolezza che ho di me e del mio Paese di origine, della mia diversità. E naturalmente la consapevolezza che esiste altro rispetto a quello cui sono sempre stata abituata. Questo altro a volte è peggio, a volte meglio. Comunque è importante sapere che c'è.
Quando ho cominciato a scrivere questo blog volevo un pò sfogare la frustrazione di cui dicevo. Ma mi piaceva anche l'idea di approfondire certi temi, e volevo lasciare nero su bianco questa esperienza che ha in ogni caso qualcosa di speciale. Mio marito lo definisce autoreferenziale, e ha ragione. Non scrivo per gli altri, per avere più visualizzazioni. Scrivo soprattutto per me stessa.
Tanti auguri, dunque, caro blog.

lunedì 2 novembre 2015

Nel 2015, siamo tutti indigeni

Si è appena conclusa la prima edizione mondiale dei Giochi Olimpici dei Popoli Indigeni. La manifestazione si é tenuta dal 23 ottobre al 1° novembre nello stadio di Palmas (capitale dello Stato Brasiliano di Tocantins), ed ha visto la partecipazione di circa 2000 atleti facenti parte di decine di etnie provenienti da varie parti del mondo.

Le discipline in cui gli atleti si sono cimentati in questi giorni sono state sia le classiche competizioni occidentali (football, canottaggio e atletica) sia quelle tipicamente indigene (tiro con l’arco, corsa coi tronchi, lotta e tiro alla fune). Ed oltre alle gare vere e proprie, si è potuto assistere anche a dimostrazioni non competitive di sport tradizionali, come lo xikunahati, il calcio indigeno, che si gioca usando la testa al posto dei piedi.



Ma le differenze fra queste Olimpiadi e quelle più famose a cui assisteremo il prossimo anno, sono numerosissime, proprio a voler sottolineare con forza la peculiarità dei partecipanti. 
Prima di tutto la città scelta come sede per i Giochi, Palmas, è volutamente lontana dalle grandi capitali che di solito ospitano le Olimpiadi che tutti conosciamo.
Una partecipazione completamente diversa l'ha poi avuta il denaro: le Olimpiadi Indigene non hanno avuto sponsor e per assistervi non si doveva pagare un biglietto d'ingresso. Coerentemente con lo spirito degli organizzatori, non c'erano telecamere e non c'è stato alcun bisogno di prevedere test antidoping (e perché, se l'importante è partecipare?).
Gli indigeni partecipanti dovevano avere almeno 16 anni, mentre non era previsto un limite massimo di età. 
Pochissime discipline erano realmente competitive, come il tiro con l’arco, la canoa e la corsa. Gli altri giochi sono stati meri eventi dimostrativi nei quali nessuno ha vinto: ogni atleta ha ricevuto una medaglia come simbolo di "celebrazione spirituale", invece di rappresentare l'essere "campione tra gli indigeni".
Le strutture costruite per i giochi, incluse le residenze degli atleti, sono state realizzate con materiali ecosostenibili e riciclabili. Inoltre, sono state piantate centinaia di nuovi alberi per sostituire quelli intagliati per fare le canoe e altro materiale sportivo. 

Alla vigilia delle Olimpiadi che l'anno prossimo si terranno in questo stesso Paese, gli indigeni hanno così tentato di sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema delle loro culture (ma anche delle loro stesse vite) calpestate troppo spesso da interessi economici superiori a tutto. "La nostra vita non è un gioco", si leggeva fra l'altro nei cartelli esposti da alcuni partecipanti.
I Giochi sono stati anche preceduti ed accompagnati da dibattiti su temi culturali e sociali legati ai popoli indigeni, perché l'altro obiettivo delle Olimpiadi indigene era quello di creare dei legami duraturi di amicizia tra le etnie che vivono ai capi opposti del mondo, legami di solidarietà e di mutuo aiuto.

Ma qual è la realtà che vivono gli indigeni brasiliani? Numericamente parlando, questi cittadini sui generis rappresentano solo lo 0,5 per cento della popolazione brasiliana. Le loro terre, in teoria, occupano un decimo del Paese, ma i gruppi indigeni rimangono la fascia di popolazione più povera, perché le foreste, i fiumi e la savana che sono le loro dimore sono minacciate da piantagioni, pascoli, energia idroelettrica e attività minerarie, solo per citarne alcune. La loro cultura rischia di essere assimilata dalla società convenzionale e i loro gruppi sono mal rappresentati in politica. La tensione fra indigeni e brasiliani di origine europea è quindi decisamente alta, e purtroppo non raramente si è materializzata in vittime fra gli indigeni.
Non è un caso che la partecipazione della Presidente Dilma all'inaugurazione sia stata accompagnata da fischi e proteste. Nel 2014 infatti Dilma ha scelto come Ministro dell’Agricoltura un leader della fazione ruralista, la senatrice Katia Abreu, conosciuta come la "regina della motosega", in quanto appoggia progetti a favore della deforestazione dell'Amazzonia. Ma attualmente la preoccupazione più forte degli indigeni brasiliani è la possibile approvazione della PEC215, emendamento costituzionale che conferirebbe al Congresso, e quindi anche alla fazione ruralista, il potere che ora detiene il Ministro della Giustizia nel tracciare i confini dei territori indigeni, ciò che comporta una evidente minaccia per migliaia di Km quadrati di terra.

In un mondo globalizzato dove tutto viene uniformato e schiacciato dalla logica dell'interesse economico, preservare le tradizioni indigene rappresenta davvero una sfida ambiziosa. Ma questa sfida riguarda tutti, perché tutti corriamo il rischio di un appiattimento culturale e sociale al servizio di padroni che vogliono fagocitare tutto (e troppo spesso ci riescono). E quindi mi sembra azzeccatissimo il motto di questi Giochi appena conclusi: nel 2015, siamo tutti indigeni.


domenica 25 ottobre 2015

Quando la danza ridona speranza

Quando si pensa al Brasile e al ballo, non può che venire in mente la samba. Un'associazione ineliminabile. E la samba è senz'altro una delle espressioni più belle della cultura popolare brasiliana. Sedere delle sambiste a parte, vedere qualcuno che lo balla è davvero un'esperienza esaltante.
Ma volendo guardare oltre lo stereotipo (che almeno stavolta corrisponde al vero), si incontra un altro tipo di ballerini brasiliani: quelli di danza classica.
La danza è sbarcata in Brasile all'inizio del XX secolo, con l'arrivo di insegnanti e ballerini, soprattutto russi, che hanno formato le prime generazioni di artisti. La prima compagnia professionale di danza del Paese è stata il corpo di ballo del Teatro Municipale di Rio de Janeiro, oltre alla quale esistono varie compagnie in altri stati brasiliani (Teatro Guaíra, a Curitiba, la Fundação Palácio das Artes, a Belo Horizonte, il Teatro Castro Alves, a Bahia, e il Ballet della città di São Paulo).
Thiago Soares, Royal Ballet
In realtà esistono attualmente in Brasile molte scuole di danza classica, ma questo tipo di attività avrebbe bisogno di un maggiore appoggio sia economico che culturale per decollare (resta pur sempre seguita da un pubblico di nicchia). Molte scuole infatti non riescono a sopravvivere a lungo, a meno che non si riciclino in scuole di danza contemporanea, abbandonando l'impostazione classica. La conseguenza è che molti professionisti o aspiranti tali devono emigrare per riuscire a fare carriera, come è successo a Thiago Soares, nato a Niteroi, Rio de Janeiro, ma, come dice lui in un'intervista, made in London, perché è nella capitale inglese che è approdato a soli 16 anni per imparare tutto quello che sa sulla danza. E questo trentaquattrenne brasiliano è niente popò di meno che il primo ballerino al Royal Ballet di Londra da ben 15 anni.
Da qualche tempo, comunque, sembra ci sia in Brasile qualche opportunità in più per i giovani che vogliano accostarsi alla danza classica.
Il passo più significativo è stato compiuto a Joinville, una cittadina nel nord dello Stato di Santa Catarina, dove dal 2000 è stata inaugurata l'unica scuola di ballo Bolshoi al di fuori della Russia.  La scuola catarinense rientra in un progetto volto all'inclusione sociale di bambini e adolescenti. La città è stata scelta in quanto già vi si svolgeva un importante Festival di danza che all'epoca ha impressionato i russi del Bolshoi di Mosca.

Ma un altro progetto importantissimo che coinvolge anche la danza classica è quello denominato "Novos Sonhos", promosso dai missionari della Chiesa Battista. Il Progetto mira ad allontanare da droga, alcol, violenza e prostituzione, bambini e adolescenti che vivono nella famigerata favela di Cracolandia dando loro la possibilità di frequentare lezioni di musica, jiu jitsu, calcio e, appunto, danza classica. Cracolandia è una zona nel centro di São Paulo, famosa per il traffico di droga e la prostituzione (ma esiste una Cracolandia anche a Rio de Janeiro). Il Brasile è uno dei maggiori consumatori di crack al mondo, un altro triste record di questo Paese troppo spesso lontano dai sogni. Nel caso delle bambine partecipanti al progetto Novos Sonhos, l'obiettivo è anche quello di evitare le gravidanze precoci, vera e propria piaga sociale, dando loro un obiettivo più a misura di infanzia.

Qui trovate il video sul progetto:
http://www.internazionale.it



domenica 18 ottobre 2015

Brasilia, una capitale da sogno

Il 21 aprile 1960 veniva inaugurata la nuova capitale del Brasile, una città costruita dal nulla lì dove non c'era che deserto.
Il "marco zero", disegnato da Lucio Costa per iniziare a costruire Brasilia
Il progetto di spostare la capitale del Brasile da Rio de Janeiro all'altipiano interno del Paese risaliva già agli inizi del 1800 ed era stato messo nero su bianco nella prima costituzione repubblicana del 1891 (ripreso poi anche nella costituzione del 1946). Un progetto quindi a lungo rimandato, fino a quando il Presidente Kubitschek ha deciso che Brasilia sarebbe stata il simbolo della volontà del nuovo governo di promuovere la modernizzazione del Paese per tirarlo fuori dal ritardo in cui versava. E Brasilia, con la sua architettura futuristica e la sua struttura completamente nuova, incarnava questo simbolo alla perfezione.
Il Parlamento, progettato da Oscar Niemeyer
L'ambizioso progetto è costato molto (secondo alcuni troppo) denaro, servito sia a trasportare tutti i materiali con un ponte aereo sia a pagare un'enorme quantità di lavoratori arrivati da ogni parte del Brasile.
Il Presidente Juscelino Kubitschek, coadiuvato da una manciata di geni (Lucio Costa, Oscar Niemeyer, Roberto Burle Marx, e Athos Bulcao, fra gli altri), in quasi 4 anni ha dato vita a quello di cui si era tanto parlato per un secolo e mezzo. Coloro che hanno ideato la capitale sono stati "ospitati" nella spartana residenza temporanea del Presidente, il Catetinho, dove tutti (compreso lo stesso Kubitschek) condividevano, oltre al progetto, cibo e sistemazione. Attualmente il Catetinho è stato trasformato in un museo, dove è possibile curiosare nelle stanze e ammirare gli oggetti e le foto della costruzione.
Il Catetinho, residenza provvisoria del Pres. della Repubblica 
Ma Brasilia, oltre che un progetto, è stata anche un sogno, anzi due.
Il primo è stato quello di Don Bosco, che nel 1883 profetizzava la costruzione di una città, in Sudamerica, dove sarebbe scorso latte e miele, vicino a un grande lago. Ed è più o meno alle stesse latitudini indicate da Don Bosco che è sorta Brasilia, su un lago artificiale, il Paranoà, creato allo scopo di garantirne l'umidità. Per questo motivo Don Bosco è patrono principale di Brasilia insieme a Nossa Senhora Aparecida. e a lui sono dedicati un intero quartiere, una delle vie principali della città, e un santuario realizzato da Carlos Alberto Neves, allievo di Niemeyer.
Santuario Don Bosco
Il secondo sogno è stato proprio quello di Juscelino Kubitschek, il presidente che ha voluto e realizzato il progetto di Brasilia. La squadra che ha tirato su la nuova capitale condivideva infatti il sogno di creare un modello di città utopico dove si mirava ad eliminare le classi sociali (per questo motivo lo scrittore francese André Malraux l'aveva denominata anche "capitale della speranza"). Chiaro che tale obiettivo non si è realizzato, ma durante la costruzione della città fu una realtà, almeno all'interno del Catetinho, come dicevo sopra.
Il sogno si è concretizzato in una città a forma di aereo, "atterrato" a 1100 metri di altitudine, la cui testa poggia su una sponda del Lago Paranoà.
La realtà è come sempre tutt'altra cosa rispetto ai sogni. Ammetto che eleggere Brasilia per viverci mi sembra una scelta impossibile da condividere. Ma pensare allo spirito che ha animato i suoi fondatori mi impressiona. Ed è sicuramente interessante vedere come alcuni di quegli edifici rappresentino ancora un simbolo di progresso nonostante siano stati costruiti ormai più di 50 anni fa.

giovedì 17 settembre 2015

Jabuticaba, l'uva per tutti (e per tutto)

Prima di venire in Brasile non avevo mai sentito parlare di jabuticaba, e tanto meno ne avevo visto un albero. Per cui quando ho visto mio figlio che mangiava questo frutto tondo e violaceo, lì per lì mi sono preoccupata. Avrebbe potuto essere una qualsiasi bacca velenosa, per quanto ne sapessi. E invece i brasiliani presenti ci hanno subito rassicurato: era jabuticaba. Anche il nome non mi diceva molto, ma comunque garantivano trattarsi di un frutto commestibile.
Quando ho visto l'albero, in compenso, mi ha fatto un'impressione stranissima: i frutti erano attaccati direttamente al tronco. Infatti i rami dell'albero di jabuticaba si ricoprono di foglie, ma i fiori, che appaiono due volte all'anno, e quindi anche i frutti, crescono sul tronco. Questa caratteristica fa sì che qualsiasi animale (anche quelli che non volano e non si arrampicano) possa nutrirsi di questo strano frutto per poi "trasportarne" i semi in giro e permettere così la riproduzione della pianta.

La jabuticaba, originaria del sud del Brasile, è conosciuta all'estero come "grape tree", mentre il suo nome portoghese deriva dalla lingua Tupi (quella che parlavano gli indigeni del Brasile e che ha lasciato dei segni anche nell'attuale portoghese locale), per la quale vuol dire cibo di Jabuti (colui che mangia poco). I frutti, che hanno un diametro di circa 3-4 cm e ricordano tantissimo l'acino di uva, possono essere mangiati crudi, anche se personalmente non li gradisco, forse perché sono troppo vecchia per apprezzare un sapore che non avevo mai preso in considerazione prima. I brasiliani con cui ho parlato mi hanno detto comunque che la buccia, effettivamente troppo dura, di norma non la mangiano, mentre succhiano la polpa bianca sputandone i semi. Questo frutto tanto particolare però è usato anche per produrre succhi di frutta e marmellate, ma soprattutto, proprio come l'uva, vino e liquori.

L'altra curiosità che riguarda la jabuticaba, sono i numerosi benefici per la salute che le vengono attribuiti. A leggere quello che gira su Internet al riguardo, viene da gridare al miracolo. Questa uva sui generis, infatti, farebbe bene alla pelle, ai capelli, alle ossa, alla linea, al cuore, all'artrite. La buccia essiccata si usa per trattare l'asma e la diarrea. E' anche un antinfiammatorio. Sembra che un tempo le donne in gravidanza fossero invitate a mangiarne a causa dell'alto contenuto di ferro e di acido folico. E, udite udite, avrebbe anche proprietà antitumorali. 

Un'ultima curiosità riguarda la lingua: in Brasile si usa la parola "jabuticaba" per indicare qualcosa che si pensa essere tipicamente brasiliano, visto che si ritiene che l'albero cresca solo in Brasile (ma non è vero: si trova anche in altri paesi sudamericani). Di solito però questo uso assume un'accezione (auto)denigratoria: la sola cosa veramente brasiliana, ed anche buona, è la jabuticaba. Per l'esattezza il detto è: "se a coisa so der no Brasil, nao sendo jabuticaba, é besteira". Se lo dicono loro...

mercoledì 26 agosto 2015

Il rospetto nel deserto verde

Fonte: g1.globo.com
Sembrerebbe il titolo di una favola per bambini, e chissà, con un poco di immaginazione potrebbe anche diventarla, tranne che per il lieto fine, cosa che mi sembra alquanto improbabile. 
Ma andiamo con ordine. C'era una volta, e nessuno lo sapeva, un piccolo rospo che viveva nella Serra Quiriri, al confine fra gli Stati brasiliani di Santa Catarina e Paranà. C'era, ma nessuno lo sapeva, finché, proprio in questo mese di agosto del 2015, un gruppo di ricercatori dell'Istituto Mater Natura ne ha divulgato l'esistenza su un periodico scientifico in lingua inglese. Questa nuova specie di rospo, grande appena 1 cm, è stata battezzata dagli studiosi Brachycephalus quiriniensis.
Appena nato, almeno nella consapevolezza di noi esseri umani, il prode rospetto si trova già in un mare, o meglio in una foresta, di guai. Perché nell'area montuosa in cui vive (fra 800 e 1200 m di altitudine) l'uomo, il cattivo, sta progressivamente sostituendo alla foresta nativa il pino. Ma che cavolo è questo albero? Si domanda lui, il protagonista della nostra storia, non avendolo mai visto prima. E, spaventato, si chiede ancora: perché dove c'è il pino non crescono più piante del sottobosco, e il terreno è così arido? Dov'è la mia acqua? Completamente in balia dei cattivi che idolatrano un dio a lui sconosciuto, il denaro, il rospetto non sa che la sua casa si sta trasformando in quello che gli ambientalisti chiamano "deserto verde". Con questa espressione, coniata proprio in Brasile alla fine degli anni Sessanta, sono state definite le monocolture non native (diffusissime quelle di eucalipto e di pino),che vengono piantate allo scopo di produrre materiale da commercializzare.
Fonte: ecodebate.com.br
Il deserto verde si sta diffondendo in tutto il Brasile, dove si assiste ad una drammatica distruzione della foresta. Normalmente si parla tanto (e a ragione) della deforestazione dell'Amazzonia, ma in realtà lo stesso problema appartiene anche alle altre foreste del Paese (da ricordare che il Brasile, date le sue dimensioni, ospita molti ecosistemi diversi). Dopo la distruzione, i terreni vengono impiegati a fini agricoli, come pascoli e, appunto, per riforestare con piante utili all'industria (del legname, del carbone vegetale o della carta). Dietro quindi ad un apparente impiego virtuoso dei terreni deforestati, in realtà si nasconde un deserto, normalmente di pini e di eucalipti, cioè di monocolture che impoveriscono la biodiversità del territorio e provocano la desertificazione. Senza contare che normalmente queste monocolture vengono accompagnate da un massiccio impiego di agrotossici, che non fanno che peggiorare le condizioni sia per le altre specie vegetali e animali sia per l'agricoltura.
La nostra favola sembra quindi concludersi nel peggiore dei modi. Uno studio presentato dal Ministero dell'Ambiente brasiliano nel dicembre 2014 evidenzia che il numero di animali minacciati di estinzione nel Paese è aumentato del 75% fra il 2003 ed il 2014. Oltre alle specie considerate, fra l'altro, non rientrano nella stima molte minacciate che non sono state inserite nel suddetto studio in quanto non ancora conosciute e classificate dai ricercatori (fonte: http://www.ecodebate.com.br). E proprio in questa fattispecie rientra nella storia saltellando il nostro povero rospetto, che secondo i ricercatori sarebbe già a rischio di estinzione poiché molto sensibile alle mutazioni climatiche e alle alterazioni provocate dall'uomo e per vivere ha bisogno di un clima freddo e umido. Il finale, insomma, non è ancora stato scritto, ma questa non è una favola, e nella realtà, si sa, i cattivi (quasi sempre) vincono.

Per approfondimenti sul tema del deserto verde:
http://it.globalvoicesonline.org
http://www.escravonempensar.org.br

venerdì 21 agosto 2015

Brrrrrrrrrrrrrrr.....che freddo!

Siamo in pieno inverno brasiliano, e anche qui a Brasilia si sente la differenza di temperatura. Non è certo la differenza fra estate e inverno che conosciamo in Europa: nelle ore più calde la temperatura arriva tranquillamente a 30 gradi, ma la mattina presto e la sera si sente il bisogno di mettere un giacchettino.
Il Distretto Federale si trova nel centro ovest del Brasile, contraddistinto da un clima tropicale, dove cioè la temperatura difficilmente scende sotto i 10 gradi. Ma quello tropicale è solo uno dei climi che si trovano in questo Paese delle dimensioni di un continente. C'è poi il clima equatoriale (Nord e parte del Nordest) e quello semi-arido dell'interno del Nordest, dove la temperatura media annuale è di 25 - 27 gradi. E poi ci sono il clima tropicale di altitudine (tipico di parte dello Stato di S. Paolo, del Minas Gerais e delle regioni montuose di Rio de Janeiro e Espirito Santo) e quello tropicale atlantico. Ma la parte del Brasile sconosciuta ai più, quella cioè dei tre Stati a sud (Paranà, Santa Catarina e Rio Grande do Sul), dove il clima è subtropicale, ha temperature medie che difficilmente superano i 20 gradi.

Prima di avere la "fortuna" di vivere a Curitiba (capitale del Paranà) per quasi tre anni, anch'io ignoravo l'esistenza di un clima brasiliano freddo. Convinta di partire per un posto dove si potesse girare in ciabatte tutto l'anno, mi sono dovuta ricredere. Il primo inverno passato nella capitale paranaense dovevo mettere una coperta sulle gambe mentre lavoravo, perché non solo la temperatura era ben più bassa di quanto potessi immaginare, ma i brasiliani locali ritengono inutile il riscaldamento, per cui praticamente nessuna casa o ufficio o scuola ne sono dotati. Motivo? Perché vivono, dicono loro, in un Paese tropicale (il che mi fa pensare che l'ignoranza non sia solo mia). Mentre vivevo lì ho anche visto uno slogan di una casa di moda che per pubblicizzare vestiti invernali recitava, più o meno: "quanti sono quelli che vivono in un Paese tropicale e possono permettersi di vestire capi invernali?"...che culo, eh?
Curitiba, 8 del mattino di un giorno di luglio 2011
E' vero che da quelle parti non fa freddo tutto il giorno, e non per tanti giorni di seguito, ma le temperature vicino a 0 gradi fanno decisamente ambire a dei caldi, caldissimi termosifoni (per non parlare dell'umidità, che è una delle maggiori caratteristiche del clima curitibano). Al freddo dell'inverno sembra si sia adeguata fra l'altro anche la personalità degli abitanti di Curitiba, famosi in tutto il Brasile per essere scostanti ed antipatici!!!

Gramado, Rio Grande do Sul
Comunque, in generale, negli Stati del Sud del Brasile la temperatura può anche scendere sotto 0 gradi, e ci sono posti in cui nevica regolarmente.
Gramado, una città nel Rio Grande do Sul, è una famosa meta turistica proprio in quanto "specializzata" in tutto quello che caratterizza le località fredde: vi si producono cioccolato e maglioni di lana, c'è un grande parco sciistico al coperto, e il Natale si festeggia con un famoso festival, il Natal luz. E anche l'architettura fa sembrare di essere in Nord Europa.

venerdì 14 agosto 2015

Papà detenuti, festeggiare humanum est...

Ieri scambiavo due chiacchiere con un tizio, e un elicottero ha sorvolato le nostre teste. Il commento del mio interlocutore suonava più o meno come il nostro "io butterei via la chiave, altro che libera uscita". Gli ho chiesto allora di cosa stesse parlando, e mi ha spiegato che l'elicottero cercava un detenuto a cui era stato concesso un giorno di libertà per buona condotta in occasione del dia dos pais, cioè la festa del papà, commemorata dai brasiliani domenica scorsa. Il detenuto ha beneficiato di quello che qui è popolarmente conosciuto come saidao (letteralmente, uscitona), concesso in giorni di festa particolari al fine di facilitare la risocializzazione attraverso il convivio familiare e cercando di stimolare il senso di responsabilità e disciplina dei reclusi. Alla faccia di responsabilità e disciplina, il nostro ha pensato bene di approfittarne per scappare. E la sua non è una fuga isolata, visto che in ognuna di queste occasioni i detenuti che non fanno ritorno si contano a centinaia in tutto il Paese.
Ma c'è chi ha fatto di peggio, e chi molto peggio. Un altro detenuto ha infatti usato i suoi giorni di libertà per partecipare ad una rapina, ma è stato subito riacciuffato dalla polizia (fonte: http://jornalaguaslindas.com.br). Ed ecco il molto peggio: a San Paolo un ventunenne in libera uscita, ha addirittura violentato una signora di 72 anni (!!!) che faceva la sua passeggiata quotidiana (fonte: http://noticias.r7.com).

Fonte: g1.globo.com
Sempre nel carcere della Papuda, non molto lontano da dove abito io, nove detenuti sono sì rientrati ordinatamente dopo il permesso, ma sono stati beccati con 190 dosi fra erba, crack, cocaina e roupinol (un potente sonnifero), dentro lo stomaco. A quanto pare l'idea era quella di spacciare la droga dentro il carcere stesso.
I nove sono stati "liberati" del loro carico in ospedale, per poi tornare dietro le sbarre. (fonte: http://www.correiobraziliense.com.br).

Giusto per chiarire, il permesso di uscire per qualche giorno in occasione di determinate festività, è concesso solo a quei detenuti che stanno scontando la pena in regime aperto o semi-aperto e che hanno avuto un comportamento ligio, e solo per un certo numero di giorni, da concordare con il giudice.
A causa di questi permessi, in occasione delle festività sale l'allerta per i cittadini, a cui viene richiesto di prestare particolare attenzione al momento di entrare o uscire dalla macchina, o di far ritorno a casa.
Fonte: folhadedourados.com.br
L'intenzione che c'è dietro a questo tipo di uscite mi sembra lodevole. Ma, visti i risultati, la reazione dell'opinione pubblica è scontata: chi sbaglia paga, e non deve essergli data la possibilità di commettere altri crimini, anche e soprattutto mentre ancora non ha finito di scontare la pena per quel che ha fatto. E come pensare altrimenti? Si può vivere in una società in cui un'anziana che esce a fare una passeggiata deve subire una violenza sessuale perché uno è uscito un attimo di prigione ed ha urgenza? Certo che no.
Ma fermo restando che finché la situazione resta questa non dovrebbe essere permesso ad un delinquente di commettere un nuovo crimine così facilmente, vorrei fare un paio di osservazioni.
Prima di tutto, l'enorme diseguaglianza sociale che c'è alla base della società brasiliana non favorisce di certo la mancanza di crimini. Provate solo per un momento a mettervi nei panni di un povero che cresce ai margini di una metropoli brasiliana, circondato dallo squallore, la violenza come pane quotidiano e la mancanza di qualsiasi prospettiva di miglioramento (se non attraverso la delinquenza). Ovvio, ci sono tanti brasiliani poveri che vivono onestamente e cercano di migliorare la propria vita e quella dei propri figli. Ma, concedetemelo, in una situazione del genere l'inclinazione ad essere dei rispettabili cittadini non è certo incentivata. I ricchi normalmente si barricano nel proprio condominio chiuso, risolvendo il (proprio) problema sicurezza solo in parte, e chiedendo, per il resto, un inasprimento delle pene. Ma dove può portare il mantenimento in uno stato di degrado ed inferiorità della maggior parte della popolazione? Sarà che a lungo termine non si debba pensare a una strategia che diminuisca la disuguaglianza?
E ancora: le carceri brasiliane sono a quanto ne so io dei veri e propri lager. Le condizioni di vita dei detenuti sono disumane. Il numero di persone supera di gran lunga la capacità di accoglienza. E la violenza, che già fuori dal carcere è altissima, lì diventa necessaria e urgente (durante le frequenti rivolte carcerarie, non è raro che si verifichino decapitazioni, per esempio). Ho sentito dire che è sufficiente pagare un poliziotto per far fuori qualche ospite delle prigioni brasiliane. Tutto questo aiuta molto poco a reinserire i detenuti nella società. Credo che vivere una vita senza valore, aiuti ben poco a rispettare quella degli altri.
In conclusione, credo sia umano dare la possibilità ai detenuti di vedere che c'è una possibilità di vivere una vita normale, anzi doveroso. Ma perseverare nel mantenere una situazione esplosiva fuori e dentro il carcere, da parte delle autorità, è diabolico, tanto più se nel frattempo si mette in pericolo l'incolumità degli altri cittadini.

giovedì 30 luglio 2015

Kobra, un brasiliano a Roma

Ed eccomi di nuovo in Brasile, dopo una vacanza di 40 giorni in Italia che mi è servita a ricaricare le pile. Prima di partire avevo un pò curiosato su Internet nel panorama della street art, ed ho scoperto che uno dei graffitari brasiliani maggiormente riconosciuti a livello mondiale, Eduardo Kobra, aveva fatto tappa a Roma nel 2014 per lasciare il suo segno sulla facciata del MAAM (Museo dell'Altro e dell'Altrove Metropoliz). Mi ero ripromessa quindi di approfittare delle vacanze romane per vedere qualcosa di brasiliano in casa. Ma prima ancora sono andata a fare qualche scatto ad un murale realizzato dallo stesso Kobra sul palazzo della Caixa Economica Federal qui a Brasilia. 
Si tratta di un murale alto 29 metri e largo più di 7, che rende omaggio ai lavoratori che arrivarono da varie parti del Paese per aiutare nella costruzione della nuova capitale (candangos). Qui si vedono le due caratteristiche principali dello stile di Kobra, cioè le dimensioni gigantesche e l'esplosione di colori, che in questo caso fa da sfondo al candango e alla cattedrale di Brasilia, in bianco e nero. La grandezza di quest'opera si perde nell'immensità del cielo brasiliense.
Una volta varcato l'oceano, ho potuto invece ammirare Peace, il ritratto realizzato da Kobra di Malala Yousafzai, la giovane pakistana Nobel per la pace che si batte per il diritto all'istruzione delle donne (la storia di Malala è raccontata a grandi linee sul sito della fondazione da lei creata http://www.malala.org/, ma chi voglia approfondire può leggere anche il suo libro "Io sono Malala", del 2013).
E credo che non potesse esserci ritratto più azzeccato, dato il luogo. E il titolo, Pace (ripetuto con i simboli delle diverse religioni accanto al volto serio di Malala), lo è anche di più. Perché il Museo dell'Altro e dell'Altrove nasce dall'intenzione di rendere difficile lo sgombro dell'ex fabbrica Fiorucci, occupata dal 2012 da circa 200 persone, e denominata Metropoliz. In questo luogo che è altro e altrove, e nello stesso tempo fa parte della nostra realtà (quella che si cerca di non guardare) ed è qui, dietro l'angolo, ci sono italiani, peruviani, rom e persone di altre etnie, che combattono per un altro diritto elementare, quello alla casa. E lo fanno convivendo pacificamente, in una realtà autogestita dove si riuniscono settimanalmente per discutere di come risolvere i problemi. Ovviamente non si tratta di una bella utopia realizzata alle porte di casa nostra, ma di un esperimento sociale che nonostante le molte problematiche a mio parere resta molto interessante. Dentro questa realtà sui generis, l'antropologo Giorgio de Finis ha pensato di invitare degli artisti le cui opere si inseriscono in un contesto assolutamente fuori dal comune. E' un museo vivo, il MAAM, vivo e sofferente, che stravolge qualsiasi canone estetico. La decadenza, l'abbandono in cui si trova l'ex fabbrica, diventano parte integrante delle opere d'arte, danno loro un valore aggiunto.
Il ritratto di Malala si trova sulla facciata esterna del Museo, in un punto in cui via Prenestina è molto stretta. Di fronte, la fermata dell'autobus ed il viavai delle macchine. Probabilmente pochi si fermano a guardare la facciata del museo, figuriamoci se si azzardano ad entrare.
Peccato, perché l'opera di Kobra merita (e il Museo anche), con i colori che si accostano l'uno all'altro senza mischiarsi, ma che danno una grande bellezza all'insieme, proprio come il simbolo della pace nelle diverse religioni, e con quegli occhi che sfuggono alla logica del colore che li circonda, e ti frugano l'anima.
Grazie ad un artista brasiliano ho visto un pezzo della mia città che non credo avrei visitato altrimenti. L'altro e l'altrove, in un modo o nell'altro, hanno sempre qualcosa da insegnare. Basta tenere gli occhi aperti.

sabato 13 giugno 2015

Festa degli innamorati, perché in Brasile è a giugno

Omaggio di Google al Dia dos Namorados 2015

In Brasile la festa degli innamorati si è festeggiata ieri, 12 giugno, a differenza della maggior parte dei Paesi, dove questa ricorrenza cade il 14 febbraio, giorno dedicato a San Valentino.
Perché? Fino alla fine degli anni 40 gli innamorati brasiliani non potevano contare su un giorno a loro dedicato. La festa è stata istituita nel 1949, a seguito di una proposta di Joao Doria, un pubblicitario legato all'agenzia Standard Propaganda. Fu allora infatti che l'ormai defunto negozio Clipper commissionò al pubblicitario una trovata per aumentare le vendite nel mese di giugno, quando il commercio era piuttosto fiacco. Il brillante Joao propose di istituire il 12 giugno come "Dia dos Namorados", approfittando della coincidenza che fosse la vigilia del giorno di Santo Antonio, alias Fernando de Bulhoes. Questo frate portoghese predicava sempre l'amore e il matrimonio, tanto da meritarsi il soprannome di "santo casamenteiro" (casamento = matrimonio).
Lo slogan usato dal pubblicitario paulista era "Nao è so de beijos que se prova amor", aperto invito a dimostrare il proprio amore con un regalino...e così fu, perché questa pensata ha dato vita ad una ricorrenza fra le più commerciali dell'anno brasiliano. Potere della pubblicità...

mercoledì 10 giugno 2015

Ed è di nuovo sciopero (selvaggio)

Ci risiamo. Autisti e controllori degli autobus sono di nuovo in sciopero qui nel DF. Già da tre giorni. L'ultimo era stato più o meno tre mesi fa. Stavolta il motivo del contendere è la richiesta di un aumento salariale del 20% (il salario di un autista è di R$ 1928 e di un controllore R$ 1008, fonte g1.globo.com) e di un aumento dei buoni pasto del 30%, oltre che di un plano de saude familiare (attualmente hanno diritto ad un plano individuale). La controparte ha offerto un aumento dell'8,34%. E ora, finché non si metteranno d'accordo, tutti a piedi, o meglio con mezzi alternativi. Infatti lo sciopero, qui, è più o meno annunciato (magari un'ora prima), ma la sua fine, signore e signori, no. Si sciopera ad oltranza.
Ricordo che nel 2012, ad esempio, gli studenti di tutte le università federali hanno dovuto aspettare 4 mesi (dal 17 maggio al 16 settembre) la fine dello sciopero indetto dai professori per il miglioramento delle proprie condizioni lavorative. Alla fine c’è stato lo slittamento dell’anno accademico di un intero semestre.
Sciopero ad oltranza, nel caso del trasporto pubblico, significa il ricorso al trasporto pirata, e tanto traffico in più (della situazione drammatica sulle strade ho già parlato nel post Caos e morti sulle strade di Brasilia). Cos'è il trasporto pirata? Semplice: chi ha a disposizione un mezzo, qualsiasi mezzo, moto, auto, van, pullman, sostituisce gli autobus pubblici chiedendo un prezzo (e offrendo un servizio) variabile. Per l'attuale sciopero sembra la richiesta arrivi fino a R$ 10 (contro i 3 del trasporto pubblico). E non manca chi tenta di attrarre clienti offrendo il wifi sul proprio van...
Fonte: Correio Braziliense
In generale, comunque, per non incappare in problemi quotidiani più o meno seri, consiglio a chi decide di vivere (ma anche di viaggiare) in Brasile di buttare sempre un occhio alle notizie, per non farsi sfuggire l’incombere di uno sciopero
Una sentenza ha stabilito che deve essere garantito un funzionamento minimo per alcuni servizi pubblici, ma fra questi non sono inclusi alcuni servizi quotidiani diretti alla popolazione, come quasi tutti i servizi bancari e di trasporto merci, l’istruzione e i servizi postali: in tutti i casi menzionati è possibile una paralisi del 100% delle attività.
E così ci si trova a pagare la mora a causa dello sciopero della posta che causa un ritardo nella consegna delle bollette o a non poter prelevare i propri soldi per lo sciopero delle banche. E questo per giorni, settimane o chissà...
Mi è anche capitato di restare bloccata per varie ore dentro un aereo fermo sulla pista di decollo (fuori 200 gradi), perché i funzionari addetti al controllo bagagli avevano deciso di applicare scrupolosamente i controlli a tutte le valigie, provocando così un grave ritardo su tutti i voli.

Fin qui un pò di folclore, che a tratti fa sorridere (e a tratti no). Ma cosa succede quando a scioperare sono, invece, i poliziotti? Nell'aprile 2014 a causa di uno sciopero nella Bahia, nella sola Salvador e area metropolitana hanno perso la vita 39 persone in meno di 48 ore (anche se è vero che in generale lì la situazione non è un granché rosea, con una media di omicidi, nel 2013, di circa 4 persone al giorno). Per bloccare l’emorragia di violenza, la Presidente Dilma aveva addirittura inviato l’esercito.

Insomma, c'è sciopero e sciopero, in ogni caso è meglio saperlo prima...

venerdì 29 maggio 2015

Ma com'è bello vivere in Brasile

Quando si pensa al Brasile vengono sempre in mente le spiagge, il samba, il sedere delle brasiliane e il cocco. Il sogno di tutti insomma, o quasi. Ma il Brasile è un sogno o i sogni aiutano a vivere in Brasile?
L'aspettativa di vita di un brasiliano è di 74,9 anni (Fonte: IBGE, dati del 2013), in crescita come in tutti i Paesi del terzo mondo. Bene. Ma com'è vivere in Brasile? Personalmente trovo che qui, pur essendoci dei lati positivi, la qualità della vita sia troppo bassa, al di là delle differenze presenti fra le varie parti di questo enorme Paese. Ecco alcune considerazioni rubate al quotidiano.

L'eternit è usato quasi ovunque, dai parchi giochi per i bambini alle ville di lusso, figuriamoci nelle favelas. All'operaio che lo stava per mettere sul tetto di casa mia (ahimé, è la
proprietaria che decide) ho fatto notare che è pericoloso, e lui ha sottolineato che lo è solo quando lo si taglia. Accidenti, ho pensato, questo è informato. Peccato che subito dopo l'abbia visto tagliare l'eternit con il frullino senza nessun tipo di protezione. E' appena il caso di ricordare che in Italia l'uso di questo materiale è vietato da circa 20 anni. E l'eternit è solo un esempio di una scarsa attenzione all'ambiente e al diritto alla salute che ho riscontrato qui in Brasile.

L'alimentazione è pessima, più della metà della popolazione è in sovrappeso e, tradizioni culinarie a parte, mangiare sano costa molto, troppo. Il transgenico sta invadendo il mercato sempre di più, e recentemente la Camera ha approvato un progetto di legge che toglie l'obbligatorietà del simbolo che indica quali sono i prodotti OGM (vedi OGM: c'è ma non si vede). Il progetto è ora approdato in Senato, dove con ogni probabilità diventerà legge, per gentile omaggio alle multinazionali del transgenico.

Vogliamo parlare dell'acqua? In alcune zone (vedi San Paolo) è già da un pezzo che tolgono l'acqua per alcune ore al giorno...e le previsioni per il futuro sono tragiche per tutto il Paese (vedi la crisi dell'acqua). Come si può pensare alla qualità della vita se non si ha accesso neanche al bene più elementare?

Si aggiunga all'opera dell'uomo anche la presenza di simpatici animaletti velenosi, dai serpenti ai ragni, per non dire della zanzara che porta la dengue.

Ma il dato più allarmante riguarda le morti violente. In Brasile ne avvengono un numero che per un italiano che non sia cresciuto a Scampia sembra da film dell'orrore. Le morti violente si distinguono in morti ammazzati e morti per incidenti stradali. E in entrambi i casi il Brasile vanta un primato davvero poco desiderabile. Ogni anno si verifica una carneficina di omicidi. "Baleados", la gran parte. E alcuni cercano anche di rassicurarti, dicendoti che queste morti avvengono fra loro, fra bande rivali. Sì sì, molti dei delitti senz'altro sono di questo tipo (ammesso che sia una cosa bella). Ma che dire di tutti quelli che vengono uccisi durante una rapina? Per rubarti la macchina, la bicicletta, il portafogli, o anche in assaltos dentro casa, capita spesso che il rapinatore di turno abbia il grilletto facile, anche senza motivo. L'ultimo omicidio che ha fatto scalpore è avvenuto ai danni di un ciclista sulla pista ciclabile che costeggia la lagoa di Rio de Janeiro, accoltellato a morte perché non si è sbrigato a scendere dalla bicicletta.
Sulle morti a seguito di incidenti stradali ho già scritto un post (vedi caos e morti sulle strade di Brasilia). Qui mi interessa solamente sottolineare che si tratta di decine di migliaia di vittime ogni anno. In particolare qui a Brasilia mi è capitato di vedere una quantità di volte incredibile macchine ribaltate. Per non parlare della pericolosità di attraversare una strada. Mi è successo di attraversare fuori dalle strisce (ok, ero in torto, ma non credo meritassi la pena di morte) e di vedere l'autobus che stava arrivando accelerare. Mi sono spostata appena in tempo per non essere travolta. Un'altra volta ho visto una rissa che è finita sulla corsia preferenziale degli autobus. Mentre i tipi se le davano di santa ragione è arrivato un autobus, e l'autista senza fare una piega ha accelerato. Anche quella volta i facinorosi hanno fatto appena in tempo a spostarsi.

In generale, comunque, vivendo qui mi sembra di capire che la violenza faccia parte della vita dei brasiliani (non di tutti, chiaro, ma di molti). Non sempre l'epilogo è un omicidio, ma violenza domestica, abusi sessuali e quant'altro non sono tanto eccezionali.
E violenza a parte, la scarsa attenzione alla vita umana si riflette anche in altri ambiti, dove le morti sono meno dirette, ma ci sono.  Basta dare uno sguardo alla sanità, sia pubblica che privata. Troppo spesso avere o non avere i soldi per curarsi determina la guarigione o il decesso del paziente. E proprio ieri leggevo ad esempio un articolo in cui si parla dell'alta percentuale di donne che muoiono di parto (vedi http://agenciabrasil.ebc.com.br).

La scarsa qualità della vita è comunque legata in modo feroce a quanto denaro si ha. Certo, questo è vero dappertutto, ma in Brasile più che altrove. Perché costa tutto troppo caro, soprattutto comparato ai salari dei poveri (che sono tanti, tantissimi). Costa curarsi, costa mangiare bene, costa vivere in una casa (e in una zona) decente, costa dare un'istruzione adeguata ai propri figli.

Anch'io ho sognato il Brasile. Poi ci ho vissuto.


venerdì 8 maggio 2015

Romero Britto, quando l'arte diventa business


Probabilmente il nome Romero Britto non è così famoso, ma basta dare un'occhiata ad una sua opera per riconoscere quel suo stile inconfondibile. 
Ma chi è Romero Britto? Pittore, scultore, serigrafo, ma anche ideatore di loghi, mobili, costumi e edizioni speciali di prodotti, c'è addirittura chi lo definisce il più grande artista pop vivente.
Britto è nato in Brasile, Recife (Stato del Pernambuco), 51 anni fa, ma vive a Miami, negli Stati Uniti, ormai da 30 anni. Le sue opere sono colorate, immediate, popolari, appunto, ed è proprio l'obiettivo che l'artista si propone, quello di raggiungere tutti, di dare messaggi che non hanno bisogno di essere interpretati. La sua arte si avvicina talmente tanto al messaggio pubblicitario da prestarsi appunto a diverse aziende famosissime che gli hanno commissionato dei lavori per promuovere i propri prodotti. Britto si è affermato sulla scena internazionale proprio dopo essere stato chiamato per disegnare l'etichetta per una campagna pubblicitaria da Absolut Vodka, dopodiché i suoi lavori sono stati commissionati da importantissime imprese, come la Disney, la Evian, la BMW, la Pepsi, fra le altre.
Ed il suo stile rende così bene commercialmente da essere sfruttato anche in assenza di commissione, per cui l'artista brasiliano ha già intentato una lunga serie di cause per plagio (si parla di più di trecento!), l'ultima delle quali contro la Apple. La somiglianza con le immagini di Britto sarebbe infatti in questo caso così alta da aver scomodato anche i collezionisti.

Famosissimi sono anche i ritratti che Romero Britto ha realizzato per celebrità di qualsiasi tipo, nel mondo dello spettacolo, dello sport, della politica: ha spaziato da Madonna a Neymar, dall'attuale Presidente brasiliana al Dalai Lama, passando per Michael Jackson e Lady Diana. L'ultimo ritratto in ordine di tempo è quello a Sylvester Stallone, il quale ha pubblicato sul proprio profilo facebook una foto che lo immortala con l'opera dell'artista brasiliano ringraziandolo pubblicamente.

Ma l'attitudine popolare di Britto non si ferma qui: basta fare un giretto sul suo sito ufficiale per trovare una gran quantità di prodotti ideati dall'artista per essere venduti, piccoli gadget che possono essere acquistati direttamente online da chiunque, trasformando la sua arte in un vero e proprio business. Navigare per credere:
http://www.britto.com/