domenica 20 dicembre 2015

La vera identità della stella di Natale

Prima di venire in Brasile non mi ero mai fatta domande sulla stella di Natale, quella pianta che compare ovunque durante il periodo delle feste e che in genere viene buttata via subito dopo, quando sfiorisce. Qui però mi sono imbattuta in veri e propri alberi di stelle di Natale, che qui chiamano bico de papagaio (becco di pappagallo) o rabo de arara (coda di arara). Piantata a terra, l'albero della stella di Natale può arrivare anche a 3 metri di altezza. E il motivo per cui in Italia si usa come pianta da interno è quindi perché in realtà nel suo habitat naturale raggiunge il suo massimo splendore in estate, che nell'emisfero sud comincia a dicembre.
...e allora mi sono incuriosita...
Prima di tutto questa pianta è originaria del Messico, dove Joel Robert Poinsett, ambasciatore degli Stati Uniti dal 1825 al 1829, la vide per la prima volta restandone affascinato. Ne portò quindi alcuni esemplari nella sua casa nella Carolina del Sud e la fece conoscere ad amici ed orti botanici sia negli Stati Uniti che in Europa. E' per questo che la stella di Natale è conosciuta nei paesi anglofoni con il nome di Poinsettia Pulcherrima. Il nome invece di stella di Natale le fu dato dai missionari spagnoli, in quanto la sua forma ricorda quella di una stella e la sua fioritura è all'apice proprio nel periodo natalizio.
In Italia questa pianta esotica è entrata nelle case per la tradizione natalizia dopo essere stata usata per gli addobbi della Basilica di San Pietro nella notte di Natale del lontano 1899.
Attenzione però: la stella di Natale, se se ne spezza un gambo, secerne un liquido lattiginoso il cui contatto può causare lesione della pelle e delle mucose, gonfiore delle labbra e della lingua, prurito. L'ingestione causa nausea, vomito e diarrea. Insomma, prendendo in prestito un'altra pianta, non c'è rosa senza spine!


venerdì 4 dicembre 2015

Rio Doce, dove e quando finirà il disastro?

Fonte: ansa.it
I fiumi rappresentano da sempre un'importante risorsa per la sopravvivenza degli esseri umani (e più in generale, logico, degli esseri viventi). Il fiume è vita per i pesci e tutte le specie acquatiche, per gli animali e le piante che vivono nei suoi pressi, e di conseguenza si porta dietro tutta una serie di attività che permettono all'uomo di vivere. Questo è ancor più evidente per gli indios, che usano il fiume per bere, per lavarsi, e come fonte di sostentamento. Ma non è meno vero per gli altri. Ne sanno qualcosa i pescatori, gli allevatori e gli agricoltori delle zone colpite dal disastro avvenuto un mese fa, che ora non avranno più di che sostentarsi. Quando muore un fiume, muore la vita.

Fonte: noticias.uol.com.br
Anche se i  media non hanno dato molto risalto alla tragedia, oscurata dagli attentati di Parigi, credo che ormai tutti sappiano che il 5 novembre scorso sono crollate due dighe sul Fiume Rio Doce, che attraversa gli Stati del Minas Gerais e dell'Espirito Santo,  a circa 100 km da Belo Horizonte. In corrispondenza delle dighe crollate si trova una miniera di ferro, e le sostanze usate per lavorare questo materiale (metalli pesanti) si sono riversate nel fiume insieme ad una valanga di fango. Il villaggio di Bento Rodrigues è stato travolto da questo fiume velenoso, che ha causato nell'immediato 11 vittime accertate, 8 dispersi e centinaia di sfollati. Le comunità coinvolte si sono trovate però a dover affrontare, oltre al fango tossico, anche la mancanza di acqua potabile (si tratta di 250 mila persone), oltre che per molti l'impossibilità di continuare ad esercitare la propria attività. Il Rio Doce, che fra l'altro era già vittima di uno sfruttamento che lo stava lentamente depauperando delle proprie forze, ora è morto. O perlomeno agonizzante. L'inquinamento del fiume rischia poi non solo di provocare la morte di un intero ecosistema dentro e intorno al corso d'acqua, ma ora ha raggiunto il mare, e si fanno ipotesi sul tragitto di questa macchia velenosa, che segue i venti e le maree. Sono a rischio così anche le coste brasiliane, comprese quelle dell'Arcipelago Abrolhos, che è parco nazionale protetto.
Fonte: http://www.hojeemdia.com.br
Tutto lascia pensare che le conseguenze sul piano ambientale si faranno sentire per molto tempo, anche se secondo il Ministro dell'Ambiente Izabella Teixeira, per far tornare alla normalità il Rio Doce serviranno 10 anni (almeno). Greenpeace parla invece di almeno 100 anni per rendere la situazione reversibile.

La prima domanda che sorge spontanea è: perché? Voglio dire: come è possibile che non si sia potuto evitare un simile disastro? O meglio: si poteva evitare? Dove erano le autorità che avrebbero dovuto controllare? La società che gestisce il sito minerario protagonista di questo incidente è la Samarco Mineraçao, la cui proprietà è divisa fra la multinazionale Vale S.A. e la anglo-australiana BHP Billiton. La Vale è il maggior produttore (ed esportatore) di ferro a livello mondiale; nata come società pubblica, è stata in seguito privatizzata. Attualmente lo Stato Brasiliano detiene solo una piccola percentuale della società (pur mantenendo un diritto di veto su alcune decisioni rilevanti), ma la maggioranza del capitale è di fatto in mano agli stranieri (non mancano comunque tra i maggiori azionisti due banche brasiliane). Si è scomodata anche l'ONU per far notare alle autorità brasiliane che la multa inflitta ai responsabili è insufficiente a coprire il piano di recupero. Certo che una società come la Samarco, che fa girare moltissimi soldi, è sicuramente oggetto di un trattamento di riguardo, e questo se non si vuole pensar male, cioè che molti di quei soldi vengano elargiti ai politici per chiudere un occhio, e a volte due, con finanziamenti più o meno occulti e più o meno puliti. Con buona pace del rispetto per le vite umane e per l'ambiente.