sabato 28 novembre 2015

Foz do Iguaçu, che meraviglia!

In questo mese ho fatto una mini vacanza a Foz do Iguaçu, e mi sembra doveroso scrivere di questa esperienza. Doveroso perché è qualcosa di unico, e mi sento fortunata ad aver avuto la possibilità di fare questo viaggio non una, bensì due volte. Devo dire però che la mia prima volta è stata meno entusiasmante, per il semplice fatto che è stata nel mese di aprile, quando è ormai finita la stagione delle piogge. Non che allora mi sia sembrato uno spettacolo deludente: le Cascate di Iguaçu restano indiscutibilmente una delle meraviglie del mondo. Ma questa volta, con le piogge a ingrossare il fiume Iguaçu, le cascate ci hanno offerto uno spettacolo travolgente. E quando dico travolgente lo dico in senso proprio, perché dalla visita dal lato brasiliano sono uscita bagnata come un pulcino. Bellissimo! Quando arrivi e cominci il sentiero vedi le prime cascate e già ti sembra un posto surreale.


Poi prosegui, e ti accorgi che le cascate continuano, e poi ancora e ancora (sono circa 275), fino ad arrivare alla Garganta do Diablo, cioè una gola in cui confluiscono diverse cascate, dove una passerella ti permette di ritrovarti in mezzo agli spruzzi di una massa d’acqua che se uno non la vede non riesce a concepirla. Fra l'altro consigliano di usare un impermeabile (che vendono anche sul posto), ma io sono andata senza, e devo dire che lo consiglio, perché messi al sicuro telefono e portafogli ti dà proprio la sensazione di immergerti nella natura. Fra l'altro, nonostante si tratti di un posto molto turistico (è il secondo sito più visitato in Brasile, dopo Rio de Janeiro), ci si ritrova intorno una vegetazione verdissima e rigogliosissima, che ti porta a pensare come fosse alle origini.

La visita alle cascate non è completa se non si oltrepassa la frontiera e non si va anche nel lato argentino, passando per il ponte Tancredo Neves, che fino ad un certo punto ha i colori giallo e verde del Brasile, e poi si trasforma nel bianco celeste della bandiera argentina. Le cascate appartengono fra l’altro all’80% all’Argentina, ma questo fa sì che la vista d’insieme sia migliore dal lato brasiliano. In Argentina bisogna armarsi di pesos (l’ingresso si paga solo in contanti in moneta locale, mentre in Brasile si può pagare con la carta) e poi via, a prendere il trenino che ti porta verso la Garganta, questa volta vista dall’alto. Lungo il tragitto tante farfalle colorate svolazzano allegramente e non sembrano temere i turisti, sui quali a volte si posano come ad attendere uno scatto che le immortali. Il tragitto prevede una passeggiata letteralmente sopra il fiume, che è immenso, e poi ecco di nuovo l’acqua che cade giù con un fragore assordante e ti lascia senza fiato.




Senz’altro un viaggio che vale la pena fare almeno una volta nella vita. Dal punto di vista organizzativo, i brasiliani stavolta mi hanno sorpreso positivamente. Nessun problema, né nel piccolissimo aeroporto di Foz, né durante il soggiorno o la visita. A fare da contorno all’attrazione principale, l’acqua, i quaty, piccoli mammiferi piuttosto invadenti che cercano cibo passando fra le gambe dei turisti (diversi cartelli avvisano i visitatori che possono mordere). Ma fra le piante si vedono spuntare ogni tanto anche iguana e uccelli esotici (ci sono dei cartelli che mettono in guardia dall'uscire dal sentiero, dato che si possono incontrare serpenti!), e durante la mia prima visita ho visto anche un piccolo coccodrillo che prendeva il sole su una roccia in mezzo al fiume.
A proposito di uccelli, la nostra gita a Foz do Iguaçu si è conclusa con la visita al Parque das aves, altra piacevole sorpresa. Il parco ospita volatili che hanno avuto problemi e che sono stati accolti per essere aiutati. Si possono ammirare i tucani da vicinissimo, e poi pappagalli di tutti i colori e dimensioni, colibrì, e tanti altri uccelli. Molto bello, soprattutto per chi come me viaggia con i bambini.

Qualche piccola curiosità su Foz do Iguaçu:

  • il nome Iguaçu deriva dalla lingua Guarani, nella quale u significa acqua e guaçu grande;
  • la città di Foz do Iguaçu ospita in proporzione il più alto numero di musulmani del Brasile (c’è anche una moschea, inaugurata nel 1983);
  • la diga di Itaipù, poco distante, al confine fra Brasile e Paraguay, rifornisce di energia elettrica il Paraguay per la quasi totalità del suo fabbisogno ed il Brasile per circa il 25%;
  • normalmente la visita delle cascate viene accompagnato dal cosiddetto "turismo das compras" nella vicina Ciudad del Este, in Paraguay, dove i prezzi (dicono) sono molto più competitivi che in Brasile (e, aggiungerei, non ci vuole poi tanto);
  • le cascate di Iguaçu hanno fatto da scenario ad un famoso film, Mission, con un aitante Robert De Niro e dei giovanissimi Jeremy Irons e Liam Neeson. Il film, del 1986, ha vinto la Palma d'oro al 39° Festival di Cannes e vanta niente popodimenoche una colonna sonora (bellissima!!!) composta dal grande Ennio Morricone. Qui il link per ascoltarla: Ennio Morricone - colonna sonora Mission

sabato 21 novembre 2015

Malala, musulmana e combattente

In questo blog non mi soffermo in genere su argomenti di attualità. Ma gli avvenimenti di questi giorni occupano in molta parte i miei pensieri, e mi sembra giusto allora rovesciarli qui. Visto che circolano tante notizie, punti di vista, etc, ho deciso di parlarne a modo mio, usando un simbolo positivo, tanto per cambiare, cioè Malala Yousafzai. Se c'è qualcuno a cui questo nome dice qualcosa, sicuramente è perché le è stato assegnato nel 2014 il Nobel per la pace, la più giovane di sempre ad aver ottenuto tale riconoscimento. Chi è Malala? Una ragazza pakistana che quando i talebani hanno preso possesso del territorio in cui viveva, lo Swat, proibendo fra l'altro alle bambine di frequentare le scuole, si è ribellata. Non ha chinato il capo. Non è rimasta in silenzio. Ha detto al mondo intero, tramite interviste e un blog pubblicato sul sito della BBC, che non intendeva rinunciare a studiare, e che non era giusto che lo facessero neanche le altre ragazze. Ha detto no. Ha ricevuto minacce, sapeva di rischiare grosso, ma ha continuato a dire no. E così le hanno sparato. Ad una ragazzina di 15 anni che voleva studiare. E l'hanno quasi uccisa. Quasi, per fortuna.
Dopo essere uscita viva da quell'assurdo attentato, lei non ha avuto paura di dire ancora no. Oggi Malala vive sotto scorta a Birmingham, in Inghilterra, e continua a studiare con eccellenti risultati. Ha creato un fondo a suo nome che ha come obiettivo quello di promuovere il diritto allo studio (https://www.malala.org/). Non parla di bambini pakistani, o musulmani o che so io, parla di bambini, Malala, e basta. Perché non c'è (o meglio, non dovrebbe esserci) differenza quando si tratta di diritti fondamentali.

Ecco, cosa c'entra con l'attualità? Malala ha due cose in comune con i terroristi che hanno seminato il terrore a Parigi: è musulmana ed è una combattente. Ma dietro queste etichette si nasconde esattamente l'opposto di quello che sono quei terroristi. Questa ragazza è la dimostrazione vivente che islam e oscurantismo non sono sinonimi. E combatte sì, ma con le parole, rischiando la vita per un ideale molto nobile. Malala ha capito che cedere alla paura è rinunciare a ciò che rende la vita migliore, più degna di essere vissuta.

Con questo post non voglio dire che non tutti i musulmani sono "cattivi". Questo lo do per scontato, anche se purtroppo non credo sia così per tutti.
Ho scritto in breve la storia di questa ragazza per dire che ognuno di noi, nel suo piccolo, può dire no. No alla paura, no alla violenza, no al razzismo. Da chiunque provenga, e chiunque ne sia vittima. Non tutti possiamo essere coraggiosi come Malala, certo, ma sarebbe bello se ognuno di noi cercasse di avvicinarsi più al modello rappresentato da questa piccola eroina che a quello dei terroristi che vogliono schiacciare tutto e tutti.

sabato 7 novembre 2015

Un anno di blog

Il 7 novembre 2014, esattamente un anno fa, pubblicavo il mio primo post su questo blog. Il bilancio sorge spontaneo. 
Innanzitutto mi vengono in mente tutte le cose che ho vissuto in questo periodo, un altro anno passato no Brasil, e come sempre mi viene da dire che è stato faticoso. Nonostante viva in questo Paese da diversi anni, infatti, ancora trovo difficile una quotidianità fatta di tanti piccoli gesti e meccanismi lontani dalla mia cultura. Non riesco a fare amicizia, non mi abituo al jeitinho, alla lentezza, a tutto questo continuo nominare dio e jesus, al loro essere approssimativi. Non dico che è colpa loro. Solo che non mi sento a mio agio.
La mattina, accompagnando a scuola i miei figli, mi capita di sentire alla radio l'inno nazionale brasiliano (è alle 8) e allora alzo a palla e insieme a loro lo cantiamo. Mi diverte farlo, perché come italiana non riesco a percepire la solennità di questo rito, che peraltro è imposto anche nelle scuole. Anzi, è proprio la solennità che mi appare ridicola. Penso che se lo dicessi a un brasiliano si offenderebbe. Ed il sentirsi facilmente offesi è un'altra cosa di questo popolo a cui non mi abituo. E' come se avessero un senso di inferiorità che non permette loro di prendersi un pò in giro.
E poi ci sono tanti altri aspetti che mi lasciano perplessa. Loro usano diminutivi per tutto, come Flanders dei Simpson. La prima volta che mi sono sentita chiedere se volevo dell'acquetta ("Quer aguinha?") ci ho messo un quarto d'ora a capire cosa volessero. Ma cos'è, l'acquetta?!?
Non capisco la povertà e la rassegnazione dei molti, sono terrorizzata dalla violenza derivante dalla totale incapacità di capire che esiste un altro modo di vivere (quando lo capiscono, credono sia solo al servizio di dio). E ancora di più mi sento a disagio di fronte all'arroganza dei ricchi, che si sentono i padroni in questo Paese in cui c'è un apartheid rispetto alla quale mi sento completamente estranea.
Quindi alla domanda che tutti i brasiliani che incontro continuano a farmi, e cioè "come ti trovi in Brasile?", non posso che rispondere "male" (a loro non lo dico, cerco di essere gentile).
Il lato positivo di questa esperienza brasiliana continua ad essere la possibilità di accrescere la consapevolezza che ho di me e del mio Paese di origine, della mia diversità. E naturalmente la consapevolezza che esiste altro rispetto a quello cui sono sempre stata abituata. Questo altro a volte è peggio, a volte meglio. Comunque è importante sapere che c'è.
Quando ho cominciato a scrivere questo blog volevo un pò sfogare la frustrazione di cui dicevo. Ma mi piaceva anche l'idea di approfondire certi temi, e volevo lasciare nero su bianco questa esperienza che ha in ogni caso qualcosa di speciale. Mio marito lo definisce autoreferenziale, e ha ragione. Non scrivo per gli altri, per avere più visualizzazioni. Scrivo soprattutto per me stessa.
Tanti auguri, dunque, caro blog.

lunedì 2 novembre 2015

Nel 2015, siamo tutti indigeni

Si è appena conclusa la prima edizione mondiale dei Giochi Olimpici dei Popoli Indigeni. La manifestazione si é tenuta dal 23 ottobre al 1° novembre nello stadio di Palmas (capitale dello Stato Brasiliano di Tocantins), ed ha visto la partecipazione di circa 2000 atleti facenti parte di decine di etnie provenienti da varie parti del mondo.

Le discipline in cui gli atleti si sono cimentati in questi giorni sono state sia le classiche competizioni occidentali (football, canottaggio e atletica) sia quelle tipicamente indigene (tiro con l’arco, corsa coi tronchi, lotta e tiro alla fune). Ed oltre alle gare vere e proprie, si è potuto assistere anche a dimostrazioni non competitive di sport tradizionali, come lo xikunahati, il calcio indigeno, che si gioca usando la testa al posto dei piedi.



Ma le differenze fra queste Olimpiadi e quelle più famose a cui assisteremo il prossimo anno, sono numerosissime, proprio a voler sottolineare con forza la peculiarità dei partecipanti. 
Prima di tutto la città scelta come sede per i Giochi, Palmas, è volutamente lontana dalle grandi capitali che di solito ospitano le Olimpiadi che tutti conosciamo.
Una partecipazione completamente diversa l'ha poi avuta il denaro: le Olimpiadi Indigene non hanno avuto sponsor e per assistervi non si doveva pagare un biglietto d'ingresso. Coerentemente con lo spirito degli organizzatori, non c'erano telecamere e non c'è stato alcun bisogno di prevedere test antidoping (e perché, se l'importante è partecipare?).
Gli indigeni partecipanti dovevano avere almeno 16 anni, mentre non era previsto un limite massimo di età. 
Pochissime discipline erano realmente competitive, come il tiro con l’arco, la canoa e la corsa. Gli altri giochi sono stati meri eventi dimostrativi nei quali nessuno ha vinto: ogni atleta ha ricevuto una medaglia come simbolo di "celebrazione spirituale", invece di rappresentare l'essere "campione tra gli indigeni".
Le strutture costruite per i giochi, incluse le residenze degli atleti, sono state realizzate con materiali ecosostenibili e riciclabili. Inoltre, sono state piantate centinaia di nuovi alberi per sostituire quelli intagliati per fare le canoe e altro materiale sportivo. 

Alla vigilia delle Olimpiadi che l'anno prossimo si terranno in questo stesso Paese, gli indigeni hanno così tentato di sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema delle loro culture (ma anche delle loro stesse vite) calpestate troppo spesso da interessi economici superiori a tutto. "La nostra vita non è un gioco", si leggeva fra l'altro nei cartelli esposti da alcuni partecipanti.
I Giochi sono stati anche preceduti ed accompagnati da dibattiti su temi culturali e sociali legati ai popoli indigeni, perché l'altro obiettivo delle Olimpiadi indigene era quello di creare dei legami duraturi di amicizia tra le etnie che vivono ai capi opposti del mondo, legami di solidarietà e di mutuo aiuto.

Ma qual è la realtà che vivono gli indigeni brasiliani? Numericamente parlando, questi cittadini sui generis rappresentano solo lo 0,5 per cento della popolazione brasiliana. Le loro terre, in teoria, occupano un decimo del Paese, ma i gruppi indigeni rimangono la fascia di popolazione più povera, perché le foreste, i fiumi e la savana che sono le loro dimore sono minacciate da piantagioni, pascoli, energia idroelettrica e attività minerarie, solo per citarne alcune. La loro cultura rischia di essere assimilata dalla società convenzionale e i loro gruppi sono mal rappresentati in politica. La tensione fra indigeni e brasiliani di origine europea è quindi decisamente alta, e purtroppo non raramente si è materializzata in vittime fra gli indigeni.
Non è un caso che la partecipazione della Presidente Dilma all'inaugurazione sia stata accompagnata da fischi e proteste. Nel 2014 infatti Dilma ha scelto come Ministro dell’Agricoltura un leader della fazione ruralista, la senatrice Katia Abreu, conosciuta come la "regina della motosega", in quanto appoggia progetti a favore della deforestazione dell'Amazzonia. Ma attualmente la preoccupazione più forte degli indigeni brasiliani è la possibile approvazione della PEC215, emendamento costituzionale che conferirebbe al Congresso, e quindi anche alla fazione ruralista, il potere che ora detiene il Ministro della Giustizia nel tracciare i confini dei territori indigeni, ciò che comporta una evidente minaccia per migliaia di Km quadrati di terra.

In un mondo globalizzato dove tutto viene uniformato e schiacciato dalla logica dell'interesse economico, preservare le tradizioni indigene rappresenta davvero una sfida ambiziosa. Ma questa sfida riguarda tutti, perché tutti corriamo il rischio di un appiattimento culturale e sociale al servizio di padroni che vogliono fagocitare tutto (e troppo spesso ci riescono). E quindi mi sembra azzeccatissimo il motto di questi Giochi appena conclusi: nel 2015, siamo tutti indigeni.